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Sardegna

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Vivere la campagna

Ci chiamavano il Bel Paese

Il Presidente Fulvio Tocco con agricoltori

venerdì 22 aprile 2011 - COMUNICATO STAMPA

Quando in una nazione si cambiano spesso il Ministro all’Agricoltura e il Ministro della Cultura, significa che qualcosa si è inceppato. Di fronte alla crisi il “treno” va aggiustato in corsa. L'Italia oggi si trova tra i paesi più deboli d'Europa, perché non ha saputo mantenere gli impegni che aveva preso con se stessa e con gli altri paesi al momento dell'ingresso nell'Euro, ovvero, l’ energica riduzione del debito pubblico e la capacità di competere sui mercati facendo crescere la produttività. L’aver mancato di parola su entrambi gli obblighi rende precaria la nostra condizione economica e sociale e concreta la prospettiva del declino. Il tutto in un sistema non equo e disumano: il 10% degli italiani detiene quasi il 50% della ricchezza del paese e con tre milioni e cento di persone che vivono in povertà. Siamo all’assurdo. A livello governativo, non si parla più di lavoro, occupazione, di agricoltura, artigianato e cultura. L’Italia senza i privilegi sarebbe veramente il bel paese. Il 2011 è uno degli anni più difficili dell’ultimo ventennio. Gli enti locali sono alla frutta. Per scelte del governo centrale questi enti, paradossalmente, pur avendo le risorse finanziarie non possono assolvere le funzioni anticrisi. Cresce la disoccupazione e il precariato e chi si trova senza lavoro non ha nessuna prospettiva a breve. L'Italia ha le risorse necessarie per affrontare in modo risolutivo questi ritardi, basta usarle diversamente. In questo momento è la periferia che finanzia lo Stato per tenere in ordine i suoi conti. Secondo l’Ocse la ripresa è ancora lontana, l'Italia è il fanalino di coda del G7. Sono in aumento la disoccupazione (supera il 12% comprendendo i lavoratori in CIG) e l'emarginazione sociale (3,1 milioni di poveri “assoluti” nel 2009). La crescita ancora non s’intravede. Resta pesante e si aggrava, in particolare, la situazione dell’occupazione giovanile che in Sardegna si assesta nella misura del 44% della popolazione attiva. Nella nostra area territoriale, la situazione socio economica è condizionata in ugual modo dalla disoccupazione, dal precariato, dalla cassa integrazione dei lavoratori del polo industriale di Villacidro, Guspini e San Gavino, dell’area mineraria di Furtei e dallo stato di difficoltà del settore primario, nel quale contadini e pastori sono ormai allo stremo delle forze.  Nel complesso una manovra restrittiva fatta di tagli lineari che, in modo generico e senza criteri di merito, attraversano l’intera finanza pubblica con una logica primaria: quella di colpire gli enti territoriali. Una scelta gravemente iniqua perché colpisce la parte più virtuosa della amministrazione pubblica che mantiene in piedi le sorti della repubblica. In questo quadro, le province hanno subito una decurtazione del 23% e i comuni sopra i 5.000 abitanti hanno subito una decurtazione dell’11,4 % delle risorse correnti nel 2011 e del 19 % nel 2012.  La manovra colpisce gli enti locali, le imprese e i cittadini in modo iniquo e nel momento di maggior bisogno. Le nuove misure si sommano con quelle applicate in precedenza. Il punto sta proprio qui. E’ impensabile risanare il bilancio “consolidato” dello Stato e affrontare il tema della riduzione del debito pubblico e dello sviluppo del “sistema paese”, semplicemente sulla base di una drastica e  iniqua, misura di trasferimento di risorse dagli enti locali al governo centrale. Ciò che serve sono un riordino complessivo delle funzioni della pubblica amministrazione, sulla base dei principi di sussidiarietà; un controllo profondo del sistema fiscale. Da una parte recuperando la massa enorme dell’evasione e, quindi, ricostruendo il patto di fiducia fra Stato e cittadini; dall’altra rifondando su basi più eque il sistema di redistribuzione del reddito nel nostro Paese, spostando le leve fiscali dal lavoro e dai fattori della produzione alle rendite e ai patrimoni. Come qualcuno sostiene è assolutamente necessario detassare le famiglie a reddito fisso, i pensionati e i lavoratori dipendenti e aiutare i produttori agricoli in quanto custodi dell’ecosistema dove ogni uno di noi poggia i propri piedi. Su questa linea deve ricollocarsi il dibattito politico e sociale perché queste sono le premesse indispensabili ed inevitabili per arrivare a una politica di sviluppo e di superamento della crisi. Fino ad ora il dibattito ha evitato questi nodi. Anzi, le varie riforme sbandierate dal governo non sono altro che tagli al mezzogiorno e alle isole. Non esiste un altro governo europeo (di destra o di sinistra) che abbia ridotto tanto gli investimenti e le risorse disponibili per la cultura e la ricerca e l’agricoltura. Al contrario, grandi nazioni come Francia e Germania, governate dai conservatori, li hanno raddoppiati con ottimi risultati anche sul versante dell’economia. D’altro canto, dalla crisi si può uscire solo puntando sui settori produttivi, sulla qualità e sull’innovazione, come sanno bene le nostre imprese che si muovono sui mercati internazionali. In Italia invece, la parola agricoltura è bandita da questo presidente del consiglio,  e lo stesso atteggiamento lo si riserva per la cultura. In quei dicasteri, appena li conoscono, i ministri fuggono, in quanto per il Governo quei due settori portanti sono considerati marginali. I tagli hanno semplicemente l’effetto di aumentare la disoccupazione, specie giovanile, e di comprimere gli investimenti, come si è dimostrato. Ripeto: Il treno andava aggiustato in corsa.

Fulvio Tocco